Infiniti spunti di riflessione

Carissimi,

a volte e' strano cosa ti puo' riservare la giornata, magari poco prima di andare a dormire. E' da qualche giorno che preparo qui da solo qualche riga per rendervi partecipi del viaggio fatto in camper per le strade della West USA. Sapevo che qualcosa bolliva in pentola anche dal lato dei miei, ma le sorprese sono sempre in agguato. Ricevo e posto quasi intatto un pezzo di rara arguzia e di assoluto spasso, uscito direttamente dai tasti di casa Urso di Torino.
Un grazie di cuore a papa' e mamma, Nuccio e Anna Rita, che hanno trovato tempo e spirito per comporre quanto segue, ovvero il giusto cappello ad un'esperienza davvero unica!

Con affetto,
Marco



Le Razze

Dal punto di vista di chi vede gli USA per la prima volta gli spunti di riflessione sono infiniti.
Alcuni riguardano gli Americani e i loro comportamenti, per noi spesso inusuali.
Per l’esattezza bisogna dire i Californiani, essendo gli unici con cui siamo venuti a contatto.
Innanzitutto bisogna dire che a S. Francisco non accade mai di incontrare tre persone consecutive appartenenti alla stessa razza o colore.
Il fenomeno è ancora più marcato a Berkeley e dintorni, vero crogiuolo di razze studentesche ivi intervenute da tutto il globo.
C’è una predominanza del ceppo asiatico, che sfiora il 50% della popolazione universitaria. Numerosissimi i neri-mulatti-meticci e gli indio-ispanici dell’America Latina.
Calderoli si leccherebbe i baffi a cercare capri espiatori sul tetro destino che attende l’America che ha accolto tutti questi cervelli, inopinatamente albergati all’interno di teste matematico-giuridiche-umanistiche d’eccellenza, ancorché dietro volti variamente colorati.
Fortunatamente per lui, non mancano i visi pallidi: europei e americani. Questi ultimi sono quasi sempre biondi-slavati e riconoscibili dalla considerevole stazza bulimica.

Indiani

Completamente estinti sono i pellerossa. I pochi rimasti sono confinati in enormi deserti caratterizzati dai nomi esotici delle tribù di appartenenza e dalle infinite miglia desolatamente disabitate e spoglie.
Eppure proprio i Navajos ci hanno regalato una delle esperienze più significative del nostro viaggio.
Eravamo appena usciti dalla loro riserva, attraversata per oltre 200 miglia, in transito dalla Death Valley. Il tramonto si stava esaurendo colorando il cielo di arancio e porpora, dietro i lontani torrioni della Sierra Nevada.
Cercavamo un sito dove sistemarci con il nostro fido Camper, nelle vicinanze del Gran Canyon del Colorado, che avremmo visitato nei giorni a venire.
Intorno c’era solo il deserto e il buio incipiente.
Improvvisamente appare un parcheggio con l’indicazione di un mercatino tenuto dagli Indiani Navajos.
Ci fermiamo per dare un’occhiata, attratti dalla scritta “Navajo vista point”. Effettivamente come primo assaggio di panorama sul Canyon non è male... ma niente in confronto alla spettacolarità dei panorami che avremmo visto l’indomani.
Il mercatino consisteva in poche baracchette contigue di legno e lamiere (stand), quasi tutte spoglie.
Solo su alcuni tavolacci erano disposti oggetti e chincaglierie in vendita. Una decina di giovani, dai tratti decisamente indiani, vestiti all’occidentale, sorvegliavano gli stand. Molte erano donne.
Era ormai quasi buio quando uno di questi ragazzi inizia a battere su un grosso tamburello scandendo uno di quei ritmi tribali che abbiamo sentito nelle colonne sonore dei film sugli Indiani (Un uomo chiamato cavallo, Balla coi lupi, Piccolo grande uomo etc.)
Dapprima un senso di inquietudine ci attanaglia, dovuto al fatto che ci eravamo allontanati dal camper per fare alcune foto e che intorno non c’era anima viva che avesse tratti occidentali.
Solo i pericolosissimi pellerosse! Che già ritmavano danze di guerra!
Dopo pochi istanti accanto al percussionista si era formato un quartetto di ragazze e ragazzi indiani.
Sul ritmo del tamburello cantavano in modo cadenzato una nenia, con parole composte solo da vocali.
Ognuno eseguiva un suo personale vocalizzo, apparentemente estraneo all’armonia del complesso di voci, ma assemblato in un coro dal risultato gradevolissimo.
Una musicalità antica che ci ha scagliato indietro nel tempo.
Un’armonia bellissima e struggente!
Un’ultima voce sovrastante si aggiunge da solista: è quella femminile di una ragazza dai tratti olivastri che gorgheggia una preghiera al giorno ormai tramontato.
Ciò che più stupisce è il contegno serio e compunto di questi cantori che eseguono il loro coro assolutamente incuranti della nostra invadente presenza.
E’ già completamente buio quando riprendiamo il nostro cammino ancora estasiati e affascinati dalla melodia ascoltata… tra i dirupi del canyon, nel deserto di realtà che non si incontreranno mai più.
Rimane il rammarico di non aver potuto fotografare o riprendere l’insolita scena.
Ma, a pensarci bene, credo che serberemo per tutta la vita il ricordo struggente di quegli attimi, irripetibili e fatati, proprio perché affidati solamente alla forza evocativa della memoria, piuttosto che alla banale ripetitività delle immagini digitali…

Studenti di Berkeley

Eccole qui queste formichine saccenti, tutte uguali e tutte diverse, attirate qui da ogni parte del mondo dal desiderio di sapere, apprendere, applicare, sperimentare… ricercare!
Nella loro diversità di razza, religione, provenienza si può trovare un denominatore comune.
Mentre viaggiano lungo il saliscendi dei vialetti del Campus, cercando aule, biblioteche, istituti, portano in mano l’immancabile bicchiere di carta con la bevanda preferita.
Si va dal thè (rigorosamente verde!), al caffè “alluvionato”, alle bibite più inverosimili, che una gasata mente umana possa aver concepito. Ovviamente annegate in ghiaccio a pezzi, sempre servito generosamente nei locali americani. I gestori, incuranti della qualità di ciò che servono, sono attentissimi alla quantità: inversamente proporzionale ai cubetti di ghiaccio schiaffati nel bicchiere prima del suo riempimento. Schiuma e CO2 riducono a pochi milionesimi di gallone la quantità di bibita bevibile.
I ragazzi più tecnologici sostituiscono il bicchiere di carta con quello climatizzato, modello estivo e invernale… a pompa di calore! In pratica, un volgarissimo thermos.
Gli studenti, grosso modo, si distinguono in maschi e femmine… anche se si notano (e si esibiscono) elementi difficilmente classificabili nelle due categorie dianzi menzionate. Ugualmente però, per non dare nell’occhio, hanno il bicchiere in mano.
I maschi si differenziano in: a piedi e in bicicletta. Quelli a piedi sono divisi in lunghettoni (h. > 6 feet) e bulimici (larghezza > 3 feet).
Le femmine si differenziano in: a piedi lentamente oppure a piedi di corsa.
Le prime sono sciatte, brutte e spesso bulimiche; esibiscono pance debordanti da jeans a vita bassa e cosce scoperte, aventi circonferenze al limite della XXXL.
Le seconde sono atletiche, con le formose chiappe costrette in calzoncini aderenti, cosce e polpacci tonici, muscolosi e da belvedere. Portano gli auricolari dell’mp3 pendenti dai padiglioncini anch’essi muscolosi. Si esibiscono nel perenne saltellio incontinente di chi sta per farsela addosso, anche se stazionano in attesa del semaforo verde o del compagno (compagna ?) con cui proseguire la corsa.
Ovviamente non portano il bicchiere cabrio come tutti gli altri. Sono dotate di bicchiere closed-for-very-zomping-girls, con cannuccia antisaltellio, annaspante nel ghiaccio residuo… ormai trasformato in acquetta fredda shekerata a basso contenuto calorico.
Le calzature tipiche delle ragazze americana sono: infradito, oppure scarpette tipo quelle da ballerina. Per i ragazzi: infradito, oppure scarpette tipo quelle di pezza a quadretti, senza lacci, anni '70... Pietose!
Dimenticavamo: a qualunque categoria sopra descritta appartengano, tutti nell’altra mano tengono i libri. Drink & learn.


La gara di cucina

Il massimo di soddisfazione per un americano è sfidare un italiano ad una gara di cucina.
In cuor suo sa già di aver vinto, perché è impossibile che un cuoco, seppur dotato di fantasia culinaria sfrenata, possa concretizzare pastoni e guazzabugli in siffatta inverosimil guisa.
Di seguito si descrive la sciagurata performance a cui abbiamo assistito.
Pentola di acqua contenente un gallone di acqua fredda (non diciamo sciocchezze… non si tratta di brodo di un grosso pollo!... il gallone sono 3,78 litri di acqua!)
Preso un mazzetto di italianissimi spaghetti Barilla (circa 8 once…. mezza libbra!), spezzato a metà e schiaffato nel gallone di acqua fredda. Accesso fuoco. Portato a bollore. No sale. Sì verdure, finemente tagliuzzate nel frattempo su tagliere. Bietole, spinaci, rape, carote nature, zucchini, verze, cipolle con buccia, porri, tanti porri, aglio, tanto aglio, con buccia!
Quando minestrone bollire lui aprire congelatore. Frugare tra ghiaccioli ed estrarre due bacchette di pesce sconosciuto e congelato. Tuffare in sbobba bollente.
Quando riprende il bollore, lui fruga ancora in frigo, cattura uovo, rompe su bordo pentola e schiaffa in intruglio maleodorante per fissare il tutto, prima che gli spaghetti ormai spessi un pollice saltino fuori dalla pentola, stufi di tanta affettuosa cottura.
Un ultimo deciso rimestio e la generosa offerta con il mestolo ricolmo.
Siamo atterriti, le spalle incollate al muro, le mani e la fronte sudate... come rifiutare una simile leccornia?
Dal canto nostro ci esibiamo in una normalissima carbonara. Ottimi spaghetti Barilla in abbondante acqua salata e bollente. Burro, becon-affumicheto, burro, uova, pepe nero e parmigiano.
I selvaggi, incredibilmente, sembrano gradire di più la loro spaghettata ittica-vegetariana alla nostra "strana" carbonara.


Un caro saluto,
Nuccio e Anna Rita

2 commenti:

Gigio ha detto...

I miei piu' sinceri complimenti a Nuccio e Anna Rita, davvero divertente e interessante questo post, bravi!!!

Anonimo ha detto...

Carissimi zii complimenti per4 i coloriti, dettagliati e divertenti commenti!mi fate rimpiangere di non essere stata dei vostri..haimè!Un bacione.Alessia.